Architettura

“Dove nascono le rose selvatiche”_ Necessità monumentale di Beniamino Servino

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“Dove nascono le rose selvatiche”_ Necessità monumentale di Beniamino Servino è stato modificato: 2024-06-02 di Mario Ricci (AtelierTransito)

“Scegliere sempre il più difficile”  Madre Teresa di Calcutta

Aforisma o aforismo  s. m. Massima, proposizione, definizione, che in brevi e succose parole riassume e racchiude il risultato di precedenti considerazioni, osservazioni, esperienze, […] che condensa – similmente alle antiche locuzioni latine – un principio specifico o un più generale sapere filosofico o morale, così come una norma di saggezza o una regola pratica di vita: raccolta di aforismi; parlare per aforismi.

“Il disegno è un aforisma”

Monumental need, l’ultimo libro di Beniamino Servino, è un libro di segni: fatto di aforismi scritti con forme e colori, e scritti con parole. Pubblicato dalla casa editrice Lettera 22 di Siracusa, è un oggetto raffinato,  tranquillamente paragonabile a certi ricercati libri d’artista – il progetto grafico è dello stesso Servino -, in esso si sovrappongono due scritture,  intraducibili l’una nell’altra (il termine “linguaggio”, infatti, può essere usato in questo senso soltanto in quanto metafora). Scritture, inoltre, che traducono senza sosta nella contemporaneità, una sorta di tradizione archetipa. Non sono disegni che illustrano, ma che scavano e incidono. Apologia dello strato:  in questi disegni l’architetto  casertano  mette in opera il suo stesso modus operandi, attraverso una litania. Perturbanti, liberi e anarchici: urlano il loro dubbio su di una realtà appiattita e fiacca di energie. Disegni come esercizi quotidiani per  raffinare i propri sensi e i propri strumenti interpretativi, in cui gioco e misura, riproducono un orizzonte immaginario sopra quello reale, entro il quale visioni vagano senza sosta: un orizzonte della mano.  Amalgama di tecnica e poesia, questi disegni svelano sempre i loro riferimenti. “Allora il disegno diventa un manifesto”

“Traduzione, Tradizione, tradimento”

Nel tradurre i suoi aforismi in altre lingue, o nel riprodurre l’ingrandimento del particolare di un altro disegno, nel separarne gli strati o nel riscriverli con segni digitali, Servino perde qualche cosa e trova qualcosa d’altro. “Mi piace – afferma Beniamino Servino – sentire il testo che amo attraverso la mia voce, è un modo per appropriarsi di un oggetto, per farlo proprio attraverso la riscrittura”. La tradizione, evidentemente, non è in questo caso qualcosa a cui tornare, ma un obbiettivo da perseguire, da costruire strato dopo strato. Essa è costantemente tradotta e tradita: è desiderata. Servino sembra indicarci (e a-ragione) che la contemporaneità, l’essere contemporanei, non significa co-incidere perfettamente con il proprio tempo, ma piuttosto, significa essere inattuale, intempestivo nello spazio e nel tempo. Intempestivo, come colui il quale vuole “prendere posizione” rispetto al presente, senza adeguarsi alle sue pretese, e  proprio  per questo, grazie a questo anacronismo e a questo scarto, egli è capace più degli altri di percepire e affermare il suo tempo. Intempestivo è il desiderante. Ecco come si spiega il costruire sopra scarti o lacerti, e l’insistenza del suo operare al margine, dal quale, attraverso l’ampiezza della sua orbita, gli è permesso vedere di più. Ecco come si spiega il suo procedere per “zigo zago”, tra il colto e il popolare, tra infanzia e maturità, attraversando tutti gli “strati”. E di strati sono fatti i suoi disegni, come il reale, di una successione di trasparenze. E si noti bene, che la trasparenza è qui,  non ciò che è perfettamente chiaro, ma piuttosto, ciò che è chiaramente complesso.

L’architetto è un muratore che sa il latino.

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“Necessità monumentale nel paesaggio dell’abbandono”                                                                                      

 Tradizione e monumentalità sono, dunque,  la stessa cosa, non preesistono al processo progettuale ma vanno trovare: desiderate. La necessità monumentale dell’architetto casertano, inoltre, sorge nel paesaggio dell’abbandono: senza questa constatazione il suo lavoro risulta incomprensibile. Più un paesaggio urbano o rurale è lasciato a se stesso, abusato, abbandonato, sembra affermare Servino, e più è adatto per sviluppare questo tipo di anticorpo: una monumentalità che si forma partendo da elementi archetipi elementari, e che tornano a segnare, dopo aver attraversato un processo di riscrittura, il territorio stesso che li ha generati. E’ la “pennata” (ricovero elementare e primitivo, di solito d’uso rurale, costruito con mezzi minimi e materiali di risulta) a divenire monumento, installata, per aggiunta , sopra viadotti automobilistici abbandonati (eccellenze monumentali contemporanee del Bel Paese), oppure affacciata sul bordo di una cava, che il paesaggio ha, essa stessa, rimodellato (devastandolo?). Un lavoro al margine che ricorda da lontano le operazioni di Gilles Clement, ma il cui senso viene capovolto nel proprio tragico e perturbante intento trasformativo: in questo caso, proprio il preservare e il ripristinare alla ricerca di mitiche condizioni originarie, ha il significato di distruggere e devastare la tradizione. E’il pittoresco, dunque (con tutti i suoi corollari), ad essere indicato come pericolosa retorica  contemporanea. Monumento come rimando all’opera della memoria; Monumento come unità di misura per mettere ordine nel caos; Monumento come veicolo di un pensiero politico.

Monumento  come memoria e re-interpretazione del contemporaneo.

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“L’éphémère est éternel”                                                                                                                                                        

Solo ciò che fugge rimane e dura: è la “pennata”, “manifesto popolare dell’appropriazione degli archètipi “, manufatto effimero e dalle mille e mille varianti, che diventa monumento. A imperituro monito, presumiamo, della caducità dell’essere uomini. Non resta che tradurre tranquillamente e senza angoscia: un atto d’amore col quale iniettare nella contemporaneità tali sollecitazioni, “da un corpo all’altro…da un tempo all’altro”. Mentre l’aspirazione, la difficoltà, sta nell’invenzione di un nuovo tipo. Servino sembra a proprio agio -a differenza della maggior parte degli architetti italiani contemporanei – nel transito incessante (un andirivieni continuo)sul ponte che unisce instabilmente vecchie concezioni a compiti nuovi. L’architetto è qui ingegnere della memoria: “colui che costruisce assecondando i principi universali. Colui che conosce e usa gli archetipi per trasportarli da un tempo a un altro”. Egli incide il terreno con i suoi pensieri: proiettando un significato su un’assenza. Arricchendo la povertà dello stimolo con delle ipotesi cognitive.

“La bellezza è in superficie”

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Dansè Macabrè [I nuovi mostri]

“L’eroe tragico – scriveva Franz Rosenzweig – ha soltanto un linguaggio che gli si addice perfettamente: il tacere  (…).Tacendo, l’eroe rompe i rapporti che lo congiungono con Dio e con il mondo”. I testi in forma d’aforisma, le poche parole, l’atteggiamento schivo  con cui Servino commenta il suo lavoro, s’addicono perfettamente all’asciutto vocabolario e alla grammatica potentemente semplificata attraverso cui l’architetto imposta una moltitudine di variazioni, padroneggiando con maestria scarni elementi. La tentazione è quella di tacere, ma questa tragicità, si scioglie però nel dramma personale, nel vissuto: nella narrazione rapsodica di un medesimo contenuto. Riportando tutto a casa – “bring it all back home”. La poetica  (la ricerca e la pratica professionale) dell’architetto casertano proviene da un senso di doloroso abbandono. Raffaele Cutillo, commentando un famoso disegno di Servino, ha parlato del “flagello” come misura dello spazio urbano, del “Riscatto della Miseria attraverso l’Architettura”. Arduo compito, “improbus labor”, senza spettatori, che non ammette spettatori. Compito che richiede, oggi più che mai, una grande dose di ironia, “perché ironia significa insistenza nell’interrogare, e distacco e misura del phatos” [Cacciari 1995]. E il monumento infine verrà rimaneggiato, occupato, ritradotto, sarà uno strato su cui edificarne altri.

Estremi e inquietanti, per questo inospitali, sono i luoghi dove tali visioni possono permettersi di attecchire e di crescere.

“Molto facile”

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Mario Ricci (©AtelierTransito)

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