Consideriamo a priori l’architettura come un’arte di nicchia e la figura dell’architetto come un artista frivolo che realizza le proprie suggestioni progettuali indipendentemente dal metro di giudizio esterno.
A questa prima superficiale lettura si desume che l’architettura non è altro che edilizia e che l’architetto è una sorta di pittore che dipinge l’edilizia su di uno sfondo neutro, cioè incondizionato dalle preesistenze.
Immaginate di avere di fronte a voi, un architetto, che per realizzare un progetto, dipinge su di una tela ancora intonsa. Con occhio indiscreto non osate domandare cosa stia facendo, un’artista non va disturbato mentre lavora; così attendete che l’opera sia compiuta. Terminato il lavoro l’artista con profondo orgoglio vi mostra il progetto: forme e sagome che voi non capite ma che, per l’architetto, rappresentano una visione bella e diversa, proprio quella diversità che ammiccandovi, intriga il destinatario dell’opera.
L’architettura però non è questo, non si cela dietro a forme suggerite da una bellezza autoreferenziale.
Spesso si parla di come gli antichi greci o i romani fondassero città o realizzassero progetti notevoli per le loro conoscenze tecniche; ma questi progetti non si basavano su forme chiuse in sé stesse e belle nelle loro linee. Pensate all’ingresso all’Acropoli di Atene, o il Teatro Romano di Verona per avere esempi più vicini a noi. Entrambi realizzati in uno spazio in cui la valenza paesaggistica è molto rilevante in modo che il dialogo tra edificio e natura sia invasivo e contestualmente perfetto. Più di duemila anni fa il dialogo tra architettura e paesaggio era una costante; ai giorni nostri questo rapporto si è andato a riscoprire solo negli ultimi vent’anni.
L’attenzione al paesaggio non è stata frutto di un’evoluzione del modo di intendere l’architettura, bensì necessaria soluzione ai problemi cui il nostro paese ha dovuto far fronte: allagamenti, frane, speculazioni del territorio, crolli sono state le basi che hanno gettato una rilettura del sistema edilizio che fino agli anni ’70 percepiva il suolo come una risorsa illimitata.
L’evoluzione delle tecniche costruttive, dei materiali ed una sviluppata sensibilità hanno oggi portato ad un grado più accurato, ma non per questo concluso, di interventi.
L’architettura spesso viene interpretata come qualcosa di puntuale e di indifferente dal contesto ma provate a pensare come sarebbe per Mantova vivere con la milanese Torre Velasca al posto del campanile di Palazzo della Ragione.
Ciò che ci circonda è frutto di stratificazioni storiche che segnano il passaggio di epoche differenti.
Proprio per questo lo sciupio del territorio con mere villette a schiera estese uniformemente piuttosto che gruppi di condomini ai margini delle vie storiche, un tempo proseguo di tracciati commerciali, si trasformano in fratture che non permettono alla città di estendersi ma di perdersi in agglomerati urbani periferici senza forma e massificati, privi di identità.
L’identità di un luogo è data dalle funzioni per le quali è nato e dalle quali ha preso forma.
Certo non si ha la pretesa di dettare regole oggettive per guidare gli interventi verso la realizzazione di città “ideali”; forse perché sono ancora uno studente immaturo e sognatore, forse perché credo che un’architettura a portata di uomo e natura sia ancora possibile o forse semplicemente perché non ho ancora voluto aprire gli occhi e capire quale è il sistema che gestisce il mondo.
Ad ogni modo ritengo troppo comodo affermare che non è possibile cambiare ma soltanto adattarsi, gli stereotipi ormai esistono dietro ogni angolo; forse è proprio questo il motivo, l’omologazione porta inconsciamente all’annullamento di sogni e identità.
Si parla sempre di una goccia nell’oceano e non di pioggia perché è più comodo ignorare che non mettersi in gioco?
Marcello Dott. Ghirardi
#gdesignart
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